Onorevoli Colleghi! - L'eccezionalità degli eventi che promossero l'avvento del sistema maggioritario nel nostro ordinamento, nella versione atipica rappresentata dalle leggi elettorali n. 276 e n. 277 del 1993, ne condizionarono fortemente anche la fattura e la coerenza logica con l'intero impianto ordinamentale.
      Come, infatti, dimenticare la drammatica sequenza degli episodi che presto imparammo a legare al nome di «Tangentopoli» che, nell'aprile del 1993, fecero da sfondo e da motivazione al referendum antiproporzionalista, padre della riforma maggioritaria?
      In quella tornata di mesi si consumò un clamoroso misunderstanding, provocato dal salto logico compiuto sull'onda emotiva dell'esecrazione popolare nei confronti dei partiti colpevoli dei reati di Tangentopoli: il referendum antiproporzionalista si tramutò in un plebiscito antipartitico sulla base del rozzo e indimostrato assioma: proporzionale = malaffare.
      In quel clima non fu difficile affermare come nuovo dogma la indimostrata affermazione, largamente suffragata da tutto il sistema mediatico nazionale e dal fronte dei partiti in rotta e alla ricerca di nuove legittimazioni presso l'elettorato, del valore salvifico dei sistema maggioritario. Un sistema maggioritario, andrebbe aggiunto, purchessia, poiché l'esito finale di quella specie di Termidoro che fu il biennio della

 

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XII legislatura risultò essere due pessime leggi elettorali, figlie del lavorìo abrasivo del referendum abrogativo che procedette sull'impianto normativo «per cancellazione» e dunque non in una dimensione di coerenza con il contesto ordinamentale.
      Una riforma elettorale che conservava i peggiori difetti del sistema proporzionale aggiungendovi i fortissimi vulnus alla democrazia partecipativa di un maggioritario a base uninominale consegnato nelle mani della nomenclatura dei partiti.
      A distanza di un dodicennio dall'approvazione del «Mattarellum», nel dicembre 2005 la maggioranza al Governo nella XIV legislatura approvò, con il voto contrario dell'intera opposizione, la legge n. 270, che modificava la formula elettorale del «Mattarellum» nel senso dell'introduzione di un proporzionale corretto con un premio di maggioranza. Ma la caratteristica principale con cui sarà ricordato il nuovo sistema elettorale, peraltro carico di sconnessioni tra la formula adottata per la Camera e quella adoperata per il Senato, è la confisca di ogni possibilità di scelta dei rappresentanti nel Parlamento da parte dei cittadini.
      Con la legge n. 270 del 2005, infatti, che i media battezzarono subito come «Porcellum» con evidenti intenti qualificativi, è adottato il sistema delle liste bloccate, già sperimentato per la quota proporzionale del 25 per cento nella legge elettorale n. 277 del 1993, per la Camera dei deputati.
      L'effetto politico è stato quello di un ulteriore scardinamento del sistema dei partiti e di un pericoloso deficit di democrazia partecipativa a causa della devoluzione, nelle mani di pochi capi, della scelta degli eletti in Parlamento attraverso il meccanismo della designazione. Le oscure e nascoste procedure allestite dai capi per la scelta delle candidature sono state, infatti, una vera e propria espropriazione del diritto del corpo elettorale di partecipare alla selezione della classe parlamentare, espropriazione che rappresenta il tradimento del rapporto tra elettore e candidato.
      È questa, probabilmente, la dimensione più eclatante in termini di deficit di democrazia dell'attuale sistema, anche se non la sola: oltre alla situazione di esiguità dei numeri della maggioranza prodotta al Senato, in ragione di una poco perspicua attribuzione del premio di maggioranza su base regionale, tra gli «effetti collaterali» recati dalla nuova legge elettorale vi è, senza dubbio, quello relativo alla trasformazione della forma-partito, passata dal classico modello di organizzazione democratica poggiato sul principio della militanza di base e sull'accoglimento del pluralismo interno, ad una sorta di deriva plebiscitaria, consacrata dal «cesarismo» dei capi, in cui appaiono sempre più neglette le regole della democrazia interna, il cittadino-iscritto si scopre sempre meno garantito dalle prevaricazioni dei capi, si afferma il principio dell'abolizione delle voci di opposizione, privilegiando, invece, il rapporto mediatico tra il leader e la pubblica opinione.
      Ma vi sono ancora considerazioni da svolgere intorno all'incongruenza dell'attuale sistema elettorale. A ben vedere, la lista bloccata è presente solo per le elezioni della Camera e del Senato. Tutto il resto, a cominciare dalle elezioni europee, per finire alle comunali e alle regionali, si basa sul principio proporzionalistico coniugato con il voto di preferenza.
      La presente proposta di legge si fa carico di dare risposte ai problemi irrisolti dell'attuale sistema, offrendo innanzitutto garanzie al principio democratico fondamentale della «scelta dal basso» delle candidature, garantito dal voto di preferenza doppio.
      La scelta del voto di preferenza doppio si motiva in base alla considerazione che la preferenza unica rappresenta un incentivo all'innaturale conflitto interno ai partiti, spezzando la solidarietà necessaria tra i candidati della stessa lista; al tempo stesso, limita gli elementi patogeni, suscettibili di indurre corruzione, rappresentati dalla necessità di far fronte alla concorrenza interna alla lista con ingenti risorse; inoltre il secondo voto di preferenza potrebbe essere utilmente impegnato per
 

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promuovere un'adeguata rappresentanza femminile nelle aule parlamentari.

      Rappresentanza di genere che, inoltre, verrebbe garantita dal congegno indicato nel comma 2 dell'articolo 1 della presente proposta di legge che, modificando il secondo comma dell'articolo 58 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 1957, prevede, a pena di nullità della lista, il limite massimo del 60 per cento dei candidati per ognuno dei generi.
      Al tempo stesso la presente proposta di legge offre una risposta definitiva al problema dell'alternanza democratica collegata ad una «governabilità» garantita da un accettabile premio di maggioranza, scegliendo di lavorare sul corpo della legge elettorale approvata nel 2005.
      Il nostro modello elettorale punta, infatti, a incentivare la formazione delle coalizioni elettorali che si propongono come coalizioni di Governo, senza annullare le identità e le specificità dei singoli partiti e delle singole formazioni politiche. La garanzia dalla frammentazione è offerta dall'innalzamento della soglia di ingresso, portata al 3 per cento.
      Al tempo stesso, attraverso il premio di maggioranza assegnato alla coalizione di partiti che ottenga il più ampio consenso intorno al nome del candidato presidente, viene a essere premiata la capacità coesiva, progettuale e programmatica della coalizione, incoraggiando un confronto con l'elettorato in cui risultino chiari gli orientamenti e le intenzioni dei raggruppamenti impegnati nella contesa.
      Si è compiuta la scelta di non prevedere l'elezione diretta del premier bensì la sua chiara designazione da parte delle coalizioni. L'intento che ha sostenuto la proposta è chiaro: non si intende modificare l'assetto costituzionale che assegna al nostro ordinamento il carattere di repubblica parlamentare, ma, al tempo stesso, si è inteso apprezzare come positiva l'esperienza delle ultime campagne elettorali, che hanno proposto a momento di identificazione per le coalizioni i candidati alla Presidenza del Consiglio scelti dai raggruppamenti in competizione.
      Anche l'ampiezza delle circoscrizioni per la Camera è stata rivisitata rispetto all'impianto della legge elettorale del 2005, scegliendo di rinunciare a una dimensione eccessivamente larga e non idonea a garantire un rapporto di plausibile rispecchiamento dell'elettore nel candidato, recuperando le estensioni territoriali previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 1957, con qualche opportuna modifica volta a rendere equivalenti il più possibile per estensione e demografia le circoscrizioni. Si è ritenuto che, in questo modo, si potesse garantire una rappresentanza geograficamente più equilibrata, rappresentativa del territorio e, soprattutto, in ragione del voto di preferenza, selezionata dal basso, dal corpo elettorale e non dai capi dei partiti.
 

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